Arte e Letteratura nella Piana di Catania – di Rocambole S. P. Garufi

Arte e Letteratura nella Piana di Catania

di Rocambole S. P. Garufi

I

‘Abu Abd ‘Allah Muhammad ‘ibn Muhammad ‘ibn ‘Abd ‘Allah ‘ibn ‘Idris, molto più brevemente da Michele Amari chiamato Edrisi, fu autore di una guida turistica della Sicilia araba, il Kitab nuzhat ‘al mustaq…, ovvero il Libro per chi gli piace girare il mondo.  “Fu questo” aggiunge l’Amari, “nel Medio evo il primo libro degno d’aspirare al titolo di geografia generale: né potea tentarsi altrove che in Ispagna e in Sicilia” (Biblioteca arabo-sicula, Torino e Roma, Ermanno Loescher, 1880, ristampa anastatica, vol. I, Catania, Edizioni Dafni, 1982, p. XXVII).

Cercando un’identità storica per la Piana di Catania – figlia del Simeto e di altri fiumi minori, stretta tra il vulcano Etna, il mar Jonio ed i monti Iblei -, ho voluto curiosarvi. “Dalla città di Catania al castello di Lentini” v’è scritto, “contasi una giornata di cammino. Lentini è forte rocca; frequente di mercati al par che una città, e discosta sei miglia dal mare. Giace sulla sponda del fiume che da lei prende il nome, pel quale risalgono le navi belle e cariche e approdano dinanzi questo paese, dalla parte di Levante. Esso ha, da ponente un vastissimo territorio, i cui confini si stendono molto lungi nella pianura. Il fiume abbonda di varie sorte di buonissimo pesce, che simile non si trova in altri paesi; e da Lentini lo si esporta per ogni luogo nei dintorni. Il paese ha de’ mercati frequentati, de’ fondachi e grossa popolazione” (p. 72).

Esattamente trentatrè pagine dopo, lo  stesso ‘Ibn ‘Idris, dopo essersene stato un bel po’ a girovagare per i centri dell’isola, torna in zona da Sud ed indica gli unici paesi che c’erano a quei tempi: “Da Mineo a Qal ‘at ‘al Far tre miglia per tramontana.”

Qal ‘at ‘al Far, o se vi piace Rocca del topo, oggi non esiste più (vi sospetto un olocausto per mano cristiana). Oggi il posto è abitato soltanto dai fichidindia e dagli sterpi e si chiama Catalfaro. In compenso, a quel tempo non c’erano né la città Militello in Val di Catania (altrimenti il nostro autore ne avrebbe almeno accennato), né quella di Scordia (nata nel XVII° secolo). Attorno a Lentini, a quel tempo, c’era soprattutto molta, molta campagna.

Per fortuna, a maculare l’asprezza del paesaggio, portati proprio dagli arabi, c’erano, e ci sono, i giardini. La parolain Sicilia indica gli agrumeti, cioè una cosa ben più concreta delle leziosaggini vegetali, poste accanto agli edifici, come si vedono a Boboli, o a Caserta. “U beni vena da Chiana, il bene viene dalla Piana di Catania” recitava un vecchio proverbio. E per noi il bene, più di ogni altra cosa, veniva dal commercio delle arance.

Si sa, infatti, come ci racconta il grande Giovanni Verga, che da queste parti nulla, neppure la bellezza, sfugge alla legge del guadagno. Tanto ricchi erano i giardini, tanto semplici e funzionali erano le case che vi affogavano dentro. Il vivo rosseggiare dei frutti tra il verdeggiare cupo delle foglie, prima che gioia degli occhi, era allegria delle tasche.  “Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: – Qui di chi è? – sentiva rispondersi: – Di Mazzarò (La roba, in Tutte le novelle, vol I, Milano, Mondadori, 1968, p. 282).

Neppure in tanto riarso squallore, però, manca l’altra sicilianità, quella della turgida, brancatiana sensualità dei giardini. Essa ci è data dai colori saturi, che sfociano in squarci di intensa, spettacolare pittura. Pensateli con sullo sfondo il mare azzurro, o le gialle distese di gramigna secca, o il bianco calcare delle montagne calve. Capirete da quale passione per la vita vengono gli alcoltellamenti e le luparate, che da seccoli muovono la cronaca locale.

Nel capolavoro dell’italo-americano Mario Puzo, Il padrino (Milano, TEA, Tascabili degli Editori Associati, 1969, edizione informatica in formato PDF, Parte VI, cap. XXIII), Michael Corleone si rifuggia per un po’ di tempo nell’isola. “Nelle lunghe passeggiate la cosa che più colpiva il giovane era la bellezza folgorante della Sicilia. Camminava fra aranceti, che formavano profonde macchie ombrose nella campagna, con antiche fontane zampillanti acqua dalle bocche con zanne, scolpite nella pietra prima di Cristo. Con case dall’architettura di antiche ville romane, a enormi portali di marmo e grandi stanze a volta, ormai in rovina, o occupate da pecore smarrite. All’orizzonte le colline spoglie rilucevano come mucchi di ossa appuntite e imbiancate. Giardini e campi, di un verde brillante, illeggiadrivano il panorama arido, come collane di smeraldo.”

E, tornando alla Piana, ad arricchire il festival cromatico degli agrumeti, c’è tutta la levità delle altre piante e degli animali, su cui si è soffermato l’occhio incantato di Ercole Patti. “Varcata la porta del Fortino la macchina si lanciò allegramente nel lungo e diritto stradale di Primosole. Nei campi fioriti di papaveri e di fiori azzurri ancora immersi nella leggiera bruma del mattino, si alzavano stormi di passeri grassi e di allodole che, al rumore della macchina, fuggivano con il loro volo tremulo e frullante e si andavano a calare più in là tra le alte erbe fresche di rugiada” (Giovannino, Milano, Oscar Mondadori, 1976, p. 29).

Un paesaggio del genere lo si accarezza con gli occhi, come con la mano si esplora il corpo di una femmina. Dirò di più: l’intero senso della vita può racchiudersi in esso. I suoi colori, come il buio in Paris la nuit di Jacques Prevert, trasmettono un delizioso, aristocratico fremito, una giovane e saporosa joie de vivre.

Non è un caso che in chi ci vive ci sia l’arguzia per compagna della sensualità. Che si tratti degli sbeffeggiamenti fissati nella pietra dai suoi scappellini d’epoca barocca, o delle ossa di morto, dolci a forma di teschi e tibbie, da mangiarsi il due novembre, o più semplicemente del parrari a baccagghiu, c’è sempre il gusto del travestimento infiorito dalla sottigliezza delle allusioni.

Da sempre, la parola pronta è un ottimo mezzo per prendere posto nel letto della donna desiderata (al di là di ogni dichiarato intento virtuoso). I giochi verbali, infatti, caratterizzano i versi del primo e più importante poeta di questa terra, Jacopo da Lentini, notaro nell’epoca in cui ci governava lo Stupor mundi (cfr. Bruno Panvini, Poeti italiani della corte di Federico II, Catania, C.U.E.C.M., 1989, p. 61). Ne vien fuori una poesia che è un incanto. Ma, trattasi di un incanto tutto mondano, che indugia nel lussureggiare delle parole, senza inutili ascese spirituali.

A l’aria chiara ho visto pioggia dare,

ed allo scuro rendere chiarore,

e fuoco ardente ghiaccio diventare,

e fredda neve rendere calore,

e dolce cosa molto ammareare,

e l’amarezza tornare in dolciore,

e due guerrieri infine pace fare,

e fra due amici nascere l’acrore.

Ed ho visto d’Amor cosa più forte:

ch’ero ferito e mi sanò ferendo,

il fuoco di cui ardea stutò col fuoco,

la vita che mi die’ fu la mia morte,

il fuoco che mi spense, ora m’incendia:

ch’Amor mi trasse e misemi al suo loco.

(Versione da me rimaneggiata, per una più immediata comprensibilità)

Tanto barocchismo anzitempo divenne poi consapevole barocco agli inizi del Seicento. Ne fu dignitoso e dimenticato rappresentante il poeta militellese Mario Tortelli, che rinverdì l’arguzia dei giochi verbali per ben più audaci approcci (Madrigali, Biblioteca Comunale di Militello).

Che vid’io? Che vid’io?

Vidi le mamme, anzi le nevi ignude

ov’amor la sua face accende e chiude;

misero ma beato,

se a la man fosse dato

quel che concesso è all’avido occhio mio;

e paga e lieta sia

in un col tatto poi la vista mia.

L’arancia rossa della Piana, quindi, al di là di ogni noiosissimo discorso sulla vitamina C e sugli anti-ossidanti, può diventare un simbolo piacevolmente peccaminoso (meglio della mela biblica). Sotto l’abito elegante della buccia, non vien fuori, forse, l’umidore aspro e dolce dei morbidi spicchi?

Un tale sentimento è confermato da un poeta siculo-arabo dell’XI°  secolo, gran cantore “della separazione e della riconciliazione amorosa” (Poeti arabi di Sicilia, a cura di Francesca Maria Corrao, Messina, Mesogea, 2002, p. 26 e poi 105), ‘Alì Al-Billanubi.

Gioisci delle arance che raccogli:

dalla loro presenza viene gioia.

Oh, siano benvenute

queste guance dei rami,

benvenute le stelle di quest’albero.

Si direbbe che il cielo abbia versato oro,

e che per noi la terra abbia forgiato pomi.

(Versione di Valerio Magrelli)

Ovviamente, nulla è eterno, neppure nell’Eden della Piana di Catania. Dove cantano le delizie del mondo inesorabilmente arriva il tempo e si porta via tutto.

Anche le vivide arance, fattesi ricordo, possono acquistare le lumescenze dei fotogrammi del cinema muto e ve le ritrovate come parte del paesaggio interiore, quando ci prende la nostalgia di un amore perduto. Chi non ricorda La Canzone Del Sole, versi di Mogol e musica di Lucio Battisti?

Le bionde trecce gli occhi azzurri e poi
le tue calzette rosse
e l’innocenza sulle gote tue
due arance ancor più rosse…

Fra l’altro, a rovinare l’Eden ci pensa la storia. Nell’odierno paesaggio della Piana di Catania non cicatrizza l’orribile e maleodorante ferita della discarica dalle parti delle curve di Buonvicino. Tutt’intorno si posano bellissime farfalle nere, ragazzine che potrebbero essere le nostre figlie, a ricordarci che la schiavitù non è stata ancora debellata e la barbarie contemporanea è degna figlia e continuatrice di quella antica.

Credo che il male assoluto sia ciò che è stato fatto al continente africano. Lo hanno massacrato arabi e turchi: lì rapivano gli eunuchi per i loro harem; lo hanno annichilito gli europei; lo hanno incattivito, depredato, inquinato russi, cubani, statunitensi, europei rivoluzionari, europei reazionari e mille infimi tirannelli locali; cominciano a sfruttarlo i cinesi… Quando finirà tanta agonia?

Perciò, manco a farlo apposta, ultimamente la Piana di Catania è stato il giusto scenario per il più grande dei poeti morenti, lo scordiense Salvo Basso. In Anonimo veneziano Giuseppe Berto scrisse che Venezia è il posto giusto per morire, poiché, vedendo quella città che affonda, hai l’impressione che insieme a te vada “a farsi fottere tutto il mondo.”

La Piana di Catania, ex Eden, ha un cancro, poco più avanti dello Biviere. Già cosciente del male che lo uccideva, Salvo Basso la guardava con occhio fraterno e scriveva (in Chiana e Biveri, a cura di Mario Grasso, Catania, Prova d’autore, 2002, p. 146).

Mò frati guida bbonu

e ppoi canusci a strata,

stamu facennu a Catania-Scurdia

e cci  aiu u tempu

di scriviri na poesia,

macari ccu suli ‘n facci

e u quadernu ca mabballa

supra i cosci

ncuntrannu machini e bbuttani

ca fanu finta di passiari,

aranci ficurinnia e u Bivieri

tranquillu comu sempri,

evitannu u Simetu

ca c’è troppu confusioni

accurzamu ppe’ cavi,

ni firmamu pi na pisciatedda lesta

ca nun si po’ rrimannari

e poi n’autra vota sterzu e rroti:

a ddà unni n’aspettunu

e currunu i malati

comu a mmia

all’ottu di matina

du frati vivi

(iù ammezzu ammezzu)

ca si volunu bbeni

cchi ponu vuliri cchiò ssai

e infatti non vulemu

nenti e cchiù tardu

festeggiamu ccu mpaninu

murtadella e Galbaninu

u restu è pacienzia

curaggiu mmiscatu

a vuluntà ma cci l’ama a fari

o frati,

ppi nuatri e ppi stu suli,

e i denti i stringiu a mmuzzicarimi

a lingua u fogghiu s’accapa

ppaccomora nun aiu

nenti cchiù di diri.

II

C’è un Avviso d’epoca borbonica che ho trovato nell’Archivio storico di Militello. E’ datato 18 novembre 1823 e riguarda la costruzione della strada Scordia-Militello. Scopro, poi, che nel 1827 il Sindaco di Scordia, Giuseppe Brocchieri, pubblicò un altro Avviso per appaltare la costruzione di un Beveratojo in Contrada Cava.

Nel 1832, ancora, il Decurionato di Scordia procedette alla gara d’appalto per la costruzione della Strada del Beveratojo, e di quella de’ Mulini. Lo stesso anno si avviarono ulteriori procedure per la costruzione della strada di Militello. L’anno dopo, così, fu affisso l’Avviso di gara d’appalto per la Strada delli quadri, che univa Scordia a Militello. Inoltre, si avviarono le pratiche per la costruzione di Strada Purgatorio e riattazione Strada Colonna.

Già dal 17 settembre 1830, fra l’altro, l’Intendente aveva inviato comunicazione ai Decurionati “di quanto giovamento sieno gli alberi di ormeggio lungo le carrozzabili strade provinciali, pel comodo de’ viandanti, per la salubrità dell’aere, e pel legno che producono.” Per cui, concludeva, “sono sicuro che codesto Decurionato come fervescente del pubblico bene, bisogno non ha che d’un impulso, per procurare tra gli altri ai suoi concittadini, utilità siffatte.”

Allora, il Decurionato di Scordia era tanto fervescente del pubblico bene che neppure un mese dopo, il 7 ottobre, si procedeva all’appalto per costruire il palcoscenico del Teatro Comunale. Va, quindi, a suo onore l’aver pensato che lo sviluppo del territorio della Piana di Catania, di cui Scordia era il cuore imprenditoriale, non era soltanto un fatto infrastrutturale.

La differenza tra sviluppo economico e sfruttamento sta nel fatto che il primo è pure sviluppo culturale. Lo dimostra la negletta vicenda artistica di Sebastiano Guzzone (1856 – 1885), nativo della vicina Militello, legato ai Majorana ed ai Florio, i maggiori sostenitori siciliani della politica liberista ed al contempo colti mecenati. Al di là della retorica laudativa di rito, dopo di loro in Sicilia – ed, a maggior ragione, nei paesi della Piana di Catania – c’è scarso seguito, sia nell’affinarsi del gusto, sia nell’organizzazione imprenditoriale.

Delle opere di Guzzone resta poco. Personalmente, però, ho la fortuna di possedere un giovanile Nudo virile. E’ uno studio da statua, nel quale l’esattezza della descrizione anatomica si coniuga con una grande morbidezza negli sfumati chiaroscurali.

Ma, quel che resta mi pare sufficiente a ricostruire un itinerario artistico complesso, con non poche punte di eccellenza. Possiamo inndividuare il periodo dell’apprendistato, il periodo accademico, il periodo galante e il periodo meditativo.

L’ammirazione generale si è soffermata sul periodo galante. E’ il più facile da apprezzare: incanta la ricchezza delle cromìe, lo splendore delle architetture, il baluginare degli ori, il movimento dei drappi. C’è, insomma, tutto ciò che può dare la frivolezza del ricamo. In maniera più sfumata, direi che esprime sentimenti lievi e vaporanti, dove la vita non è vera vita ed il gesto risulta, piuttosto, una posa teatrale. In altre parole, c’è il canto del soprano e non l’urlo di Munch.

Per me, però, le prove migliori vengono dal periodo meditativo, per quel certo velo di quieta malinconia, che esalta romanticamente la bellezza dei personaggi rappresentati. Vi predominano, infatti, gli interni: scene di preghiera o di composta meditazione, che fanno di lui un pittore di prima grandezza.

Con le sue figure l’ortodossia cattolica si ripropone come una poetica Metafisica in anticipo sui tempi. Ovviamente, si tratta di una Metafisica ancora priva della novecentesca inquietudine esistenziale, che fu propria dei De Chirico, dei Carrà, dei Morandi. Nei lavori di Guzzone si fa pittura, soprattutto, un sorprendente e suggestivo silenzio e lo spazio si eleva a raffigurazione dell’uomo in colloquio con l’infinito.

La stranezza è che tanta elevatezza in lui si coniugava con uno stile di vita tipico dell’imprenditoria agricola, smentendo certa vulgata verghiana sulla grettezza dei mazzarò siciliani. Ne trovo una bella  testimonianza in una lettera dell’amico scordiense Gaetano Modica, datata 1879, conservata nel Museo “S. Guzzone” di Militello:

“Mio carissimo amico

“pria di tutto ti prego di sapermi compatire se or che sei già uomo, e virtuoso artista, ed onorevole cittadino, ardisco tuttora darti del tu.

“Che vuoi, ti ho visto nascere, scorsi la scintilla del tuo genio, molto mi cooperai pel tuo meglio, e quindi mi lusingo averne il diritto. In ogni modo perdonami.

“Ieri sono stato in Militello ove quella mia disgraziata sorella soffre cotanto pei suoi acciaccati figlioli, ed ebbi occasione vedere il tuo buon zio e famiglia, i quali tuoi parenti sono tutti buoni e mi rapportano tante ottime cose sul conto tuo e sono gratissimi a tutto quel bene che loro hai fatto sinora. Non puoi credere le calde preghiere che pel tuo meglio rivolgono al Cielo la tua ottima madre, e la buonissima tua sorella, che si è fatta un fiore di bellezza. Lo stesso pratica il tuo buon zio, il quale, non so perché, nol trovo ilare e contento come una volta, ma spesso pensoso si giace pensieroso ed oppresso. Forse la tua lontananza ed il benedetto male nervoso che soffre tuttora. E sa che tu verrai per carnevale egli che tanto ti ama, certo si rimetterà dallo abbattimento in cui adesso si trova.

“Io nel passato settembre era sul punto di passare da costà, ma qui mi rimasi, ove Iddio ci volle in questo infelice anno di tutto privare. Non cereali, non olio, non sommacchi, e niente di bene. Insomma ogni benestante in questo anno soffre e pena, e beato tu che ne sei lontano. Non parlo poi della povera gente che si muore di fame, non trovando in questa le risorse della gente di città.

“Godi della tua situazione, fa quel bene che puoi, e lodo immensamente le largizioni alla tua famiglia massime in questo benedetto anno in cui tanto si stenta.

“Nella speranza di abbracciarti in settembre venturo se il Cielo non sarà anche crudele ti stringo con sincero affetto la mano e pronto ai tuoi cari comandi ti auguro felicissimo anno nuovo e tutte le benedizioni di Dio.

”Credimi il tuo aff.mo amico vero

Gaetano Modica”

La mentalità della borghesia imprenditoriale sta alla base pure dell’opera pittorica di Alessandro Abate (1867-1953). Le sue decorazioni elegantirono nel 1907 la seconda esposizione agricola catanese, che fu un momento di grandi progettazioni, “indice del risveglio agricolo ed industriale” (Federico De Roberto, catalogo della mostra).

Nella struttura che venne realizzata in occasione dell’esposizione (nell’attuale piazza Giovanni Verga) il  pittore pose il lavoro nei campi in una dimensione mitica ed al contempo meccanizzata (secondo gli interessi della moderna industria). “Superato l’ingresso principale disegnato dall’arcone arabo” ci racconta Antonio Rocca, “entrando nel vestibolo, si poteva osservare nell’affresco della volta un altro vistoso compromesso, questa volta fra mitologiche deità pagane e contadini al lavoro nei campi, il tutto ben inquadrato in una cornice floreale vistosamente colorita” (L’arte del ventennio a Catania, Catania, Magma, 1988, p. 171).

Con l’avvento del fascismo, secondo i canoni dello stile Nocevento, Abate rese molto più solide le forme che andava dipingendo. Ne è un esempio un suo quadro, oggi visibile nel salone di rappresentanza del Comune di Scordia. Una madre e il suo bambino stanno immersi in un aranceto fatto a immagine del paradiso. Tra il fogliame s’intravvedono gli elementi architettonici tipici della città. Di fronte a lei, voltato – a petto nudo, bronzeo e muscoloso -, sta il marito con la zappa sulle spalle, ovviamente pronto al lavoro. La donna ha la sensualità piena della nutrice, esaltata dal parallelo tra la rotondità del seno e quella delle arance. La scritta che campeggia nel quadro, “Comune di Scordia, 1933 –XI”, sovrastata dallo stemma della città, sembra scolpita col pennello di Sironi.

Gli archetipi culturali del ruralismo italico – cioè il primato del fare, combinando tradizione ed innovazione tecnica – c’erano tutti. A Scordia e nella Piana di Catania, caduto il regime fascista fra le rovine della seconda guerra mondiale, sopravvisse la mentalità che ne derivava.

Fu il motore del suo recente sviluppo economico.

Quando Santo Marino dopo i vent’anni lasciò i giardini della Piana di Catania, per frequentare il liceo artistico di Palermo, dove si diplomò nel 1947, nell’arte e nella cultura ferveva l’impegno politico. Al Nord c’era stata la guerra partigiana ed a Sud cominciava l’occupazione delle terre. Il che significò ch’egli si pensò pittore nei termini della lettera-testamento scritta da Giaime Pintor, poco prima di cadere per mano tedesca. “Ad un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento… Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti” (in Giuliano Manacorda, Storia della letteratura italiana  contemporanea (1940-1965), Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 3-4).

Per Santo Marino, quindi, fu naturale il concepire la figurazione come arma di lotta e di riscatto. Fin dagli esordi, perciò, si accostò all’espressionismo mediterraneo, in amicizia con Renato Guttuso e David Alfaro Siqueiros ed in sintonia coi loro cromatismi intensi.

“Il problema” mi disse in una sera dell’inverno 1987, in un bar, davanti al solito bicchiere di acqua tonica, “per me, come per ogni altro artista, è solo quello di conoscere… E certo conoscere vuol dire trasformare.”

Era il presupposto, per cui la sua attività espositiva agli inizi aveva coinciso con la militanza politica nelle file del Partito Comunista Italiano.

Con questo spirito, nel 1959 era stato a Vienna, per partecipare alla mostra internazionale Giovane pittura italiana. Ma, soprattutto, nel 1964, aveva finalmente esposto nella Germania comunista, a Berlino ed a Dresda. Vi era tornato l’anno dopo, di nuovo a Berlino e poi a Leipzig.

Ne era seguita una certa notorietà e l’amicizia di tanti scrittori, quali Leonardo Sciascia, Santo Calì, Giuseppe Bonaviri, Gabriele Mucchi, Franco Solmi, Franco Grasso, Mario Lepore.

“Non bisogna lasciare le proprie radici” mi disse ancora, in quella sera del 1987.

“E’ vero” risposi. “Albert Camus una volta scrisse: Guardate Ignazio Silone. Parla soltanto del suo Abruzzo. Eppure, nessuno è più europeo di lui.”

“Anche quando dipingo una mosca” scandì, “voglio che sia una mosca militellese.”

Oggi penso, perciò, ch’egli sia stato il più grande cantore dei giardini e dei contadini della Piana di Catania. A condizione di capire che il suo sentimento di appartenenza a quella terra era molto vicino alla sicilitudine teorizzata da Sciascia – a sua volta, mutuata dalla negritude di Jean Paul Sartre -, poiché implicava un valore più profondo del colore locale. La sua, piuttosto, era una particolare predisposizione d’animo nel guardare il mondo.

L’itinerario artistico di Santo Marino, quindi, era cominciato coi ritratti dei contadini, superando la rabbia che li caratterizzava nel Guttuso più propagandistico. In lui, invece, essi trasmettevano un’idea nuova di dignità, fatta di virilità ed al contempo di dolcezza nella quotidiana sofferenza del vivere.

Con gli occhi, soprattutto.

Più che la ribellione, infatti, in quei personaggi c’è la pietà del cristiano. E, cristianamente, in loro non manca un certo titanismo. Il disegno è marcato e le cromie sono sature, comunicando energia, forza, volontà, determinazione. Il bruco dell’antica fame del Sud, così, pare aver generato la farfalla di questi nuovi eroi.

Proprio perché si tratta di eroi, questi figli della terra sono dei solitari, cosa che li rende l’esatto opposto delle masse popolari che affollano i quadri di Guttuso.

“Ciò vale pure per la natura, pure per i tanti aranceti che ho dipinto” disse, continuando il concetto della mosca militellese.

“Pure realizzando sintesi audaci” completai, “che non disdegnano di risolversi in volute astratte.”

“Mi servono per esprimere l’anima individualista dei miei paesaggi.”

“Probabilmente, professore, in questo concetto si trova il filo di continuità tra la sua pittura degli anni in cui era comunista e quella che ha prodotto dopo la crisi col partito.”

“Non ho mai amato la violenza ed il comunismo lo vedevo come un moto di affratellamento universale dei popoli. Ma, come si fa a crederci ancora, dopo Stalin, dopo Mao, dopo Tito, dopo Castro, dopo Ceausescu, dopo Breznev… per portare a tutti questi disastri, il comunismo, qualcosa di sbagliato, la deve avere in partenza.”

“Meglio il socialismo democratico, allora.”

“Ma, senza dimenticare Cristo, a questo punto. Egli ha voluto gli uomini individualmente responsabili del bene, o del male, che fanno. Perché non dovrebbe averlo voluto anche per le altre creature?… Se dipingo gli aranci, il mare, gli ulivi, i fichidindia, le pietre, le tegole, i balconi… in tutte queste cose voglio cogliere una dimensione magica, per cui diventano individui coi loro sentimenti: ridono, si arrabbiano, si amano…”

“Scommetto che le piace Gabriel Garcia Marquez!”

“L’adoro! Ho letto Cent’anni di solitudine tutto d’un fiato.”

Ripensai a questa conversazione nel 1991, quando morì, travolto da un treno, mentre con la macchina attraversava distratto un passaggio a livello incustodito, recandosi nella sua casa di campagna.

Per fortuna restano i suoi quadri, ognuno con la sua personalità, come titani solitari.

III

Dal finestrino del treno Catania-Caltagirone: una collina bruna sventrata dalle scavatrici urla la sua dignità offesa. Mostra impudicamente – ostentatamente – le sue ferite. E’ sorella delle tante donne violentate. Sta riversa nella sua nudità, con una brutalità che è la più efficace denuncia della brutalità subita. Arte è anche questo: un rinfacciare violento, una valorosa parolaccia, un urlo greve. A patto che non ci si limiti allo sfogo. La nostra esperienza personale diventa interessante se diventa esperienza di tanta altra gente.

Molte delle nuove personalità pittoriche nate nelle colline che stanno intorno alla Piana riempiono le loro opere di tinte pesanti, lussuriose più che sensuali, con l’ansia e l’ingenuità di voler dire tutto in un solo quadro. Ed, invece, dicono sempre e soltanto se stessi. Ossessivamente ripetitivi. A Militello, per esempio, Nino Cannata, artista di qualche suggestiva intuizione compositiva, strumentalizzato dai locali rappresentanti dei velleitarismi sottoculturali, nati da scarse e malintese letture, resta intrappolato in un attardato espressionismo. Non c’è nulla in lui che abbia a che fare con la trans-avanguardia, ripensamento colto della storia dell’arte. Nietzsche, gran retore dalla debolissima struttura logica, ha spostato troppi allittirati dal coglionismo sloganistico all’orgia degli impotenti.

Più genuinamente parte della cultura popolare del posto, pur nelle tinte decise, mi pare la spontanea sensualità di un altro militellese, Salvatore Randone. Nella sua pittura la femmina e l’architettura favolistica fanno parte di un unico incanto. Il corpo della donna, trascurati i tratti somatici, con lui diventa un totem della felicità, da adorare contemplandone i lievitanti attributi. In interiore hominis, a metà strada tra la terra ed il cielo, stanno l’organo mammario, l’organo riproduttivo, i transiti delle cibarie… come nei migliori sogni erotici di Vitaliano Brancati.

Espressione di un’arte tecnicamente raffinata è la pittura di Giovanni Garufi, tanto da porsi nei termini di una vera e propria post-avanguardia. Ciò, ovviamente, non implica alcuna arcaicità di contenuti. I suoi Autoritratti mi sembrano di straordinaria ed urgente attualità, riproponendo la necessità di un Io, che ci renda riconoscibili e conoscibili. La spettacolarità della figurazione viene affidata ad una grande inventiva nell’immaginare scorci inediti, metafora del variare degli eventi. Restano i punti fermi del passato: Leonardo, Mantegna, Michelangelo, Caravaggio. Ma, il risultato ha vera forza innovativa, per la voglia che comunica ad ognuno di trovare la forma in cui esistere. Allo stesso modo, io, da scrittore, cerco la parola che faccia esistere il mio pensiero. In principio erat verbum.

A differenza di Militello, dove c’è il vuoto tra i rarissimi alfabetizzati e la plebaglia miserabile, Scordia ha una sua classe media. Ha avuto ed ha pure buoni artisti. Penso a Salvo Basso nella poesia, a Paolo Buonvino nella musica, ad Alfio Milluzzo nell’incisione. Altri talenti premono. Spiccano Domenico Centamore nel cinema, Claudio Bernardo nel jazz, Pippo Sesto nella ceramica, Antonio Di Silvestro e Carmelo Tramontana negli studi di italianistica, Nuccio Gambera in quelli etno-antropologici, Claudio F. Parisi nelle ricerche di storia dell’arte locale, Massimo Faraci nella pittura.

Nella pittura, che è l’arte che più mi interessa, merita di essere guardata attentamente l’opera di Ivano Di Mattia. I suoi paesaggi surreali conciliano l’esatta descrizione delle cose con certe liquide atmosfere dai colori accesi. In un suo quadro l’aria si moltiplica in tante coltri rosa e tante vampe grigio-azzurre. Nella parte inferiore della tela le presenze si materializzano in decisi blu, grigi, celesti, che sembrano dilatarsi alla conquista dell’intero spazio. E su tutto si staglia il grafismo di una scala a forbice, da raccoglitori di arance, che va a finire nel cuore del cielo.

La magia ritorna – questa volta in un interno metafisico – in un’opera di Alessandro Licciardello. Le cassette della frutta costruiscono un paesaggio da periferia sironiana, nonostante le cromie accese. Un treno-giocattolo esce da una finta galleria, sovrastato da un immenso orologio. Gli strumenti del lavoro, gli strumenti del gioco e l’organizzazione matematica del tempo (su cui poggia la società capitalista) diventano ognuno un’altra cosa, in un totale rimescolamento dei ruoli, a sottolineare l’arbitrarietà con cui viene costruita la realtà quotidiana.

Lo scultore e pittore Pippo Sesto, in particolare, sa riproporre in chiave colta l’antica tradizione della ceramica. In verità, già Picasso aveva dimostrato che questo materiale ha straordinarie potenzialità estetiche. Anche Dalì con le famose Bottiglie per il Rosso Antico aveva nobilitato l’umile vetro ad espressione d’arte. Sesto ribadisce il concetto, scommettendosi nel difficile campo della figurazione astratta. Le sue pannellature geometricamente essenziali impongono il protagonismo dei colori. Le forme sono razionali, come le strutture mentali della contemporaneità, ma dentro quegli universali i sentimenti ricreano l’individuo con indiscutibile eleganza.

Non a caso, nella lunga militanza artistica egli ha potuto godere dell’amicizia di artisti come Santo Marino e Tano Brancato. Al par di loro, ha ribadito il forte legame con la terra nativa, pur non rinunciando alle formule dell’avanguardia internazionale.

Stessa pulizia grafica e stessa attenzione alle ricerca più avanzata si trovano nell’opera di Alfio Milluzzo. Sono forme geometriche acrome, o al più monocrome, filtrate da reticolati o da fasce più chiare. La sapienza tecnica sta nella loro stesura accurata, senza che ad alcuna sbavatura sia permesso di mettere in crisi il lindore del tutto.

Il messaggio potrebbe risultare un perentorio richiamo all’ordine, secondo i canoni di Piet Mondrian. La realtà, per essere comprensibile, viene ridotta al suo nucleo fondamentale. Ogni cosa nasce dallo sviluppo di quel primo, essenziale intrecciarsi di linee e di punti. Al cuore di ogni cosa c’è l’ordine, il sublime ripetersi dello schema di un creatore nel fiorire infinito delle forme e dei colori.

Il fotografo Rocco Cristaudo è l’odierno grande raccontatore della Piana di Catania. Tecnicamente ineccepibili, senza bisogno di lasciare le ambientazioni rurali o tipicamente scordiensi, le sue immagini riescono a fissare con spaesante naturalezza sorprendenti situazioni-limite.

Ciò mi fa pensare ad una letterarietà di fondo nell’ispirazione. Il suo modo di procedere, infatti, appare parallelo a quello degli immensi Edgar Allan Poe e Franz Kafka. Essi riescono, mantenendo un tono medio, quasi dimesso, a far scoppiare dentro il lettore deflagrazioni che mandano in frantumi certezze consolidate. Per capirmi, provate a rileggere l’incipit della Metamorfosi: senza alcun motivo apparente, come se fosse la cosa più naturale del mondo, Gregorio, il protagonista, si sveglia insetto. Viene, così, realizzato in arte ciò che David Hume aveva teorizzato. Le nostre conoscenze usuali sono inficiate dal fatto che abitualmente facciamo confusione tra rapporto di causa-effetto e associazione di idee. Il Sole non sorge perché è andata via la notte. Più semplicemente: esso normalmente spunta dopo la notte, ma ciò non implica un legame di conseguenze.

Oggi sappiamo che nello spazio il Sole c’è e contemporaneamente c’è pure il buio. Pensate, quindi, all’infinità di prospettive che si apre all’artista combinando e scombinando le normali associazioni di idee.

Con Cristaudo, per l’appunto, avviene esattamente questo. Nelle sue fotografie la cultura pittorica (Michelangelo, Caravaggio, certe vibrazioni di luce dei romantici dell’Ottocento) viene posta accanto alla fedele rappresentazione della realtà. Ci sono raccoglitori di arance col torso e le braccia gonfi di muscoli. I colori li dà la natura, l’uomo dà la forma. Il primato della scultura, come sottomissione della bruta materia alla forza ordinatrice dell’uomo, reminiscenza michelangiolesca, dà l’impressione che l’artista sogni una sorta di Rinascimento della civiltà contadina.

Nell’epoca del pensiero debole ritornano i riferimenti forti, com’è normale che accada nelle zone di confine. In tempi in cui futurismo, dadaismo, metafisica e poesia ermetica mettevano in crisi la metrica tradizionale, Dun Karm Psaila, il più grande poeta maltese, vissuto nella prima metà del Novecento, affermava il diritto all’italianità dell’isola ispirandosi alla scrittura di Dante, Foscolo, Leopardi, Zanella, Pascoli e Carducci. Identica concezione nei lacerti pittorici di Cristaudo. L’identità della Piana di Catania – terra residuale della weltanschauung contadina – trova leggittimazione e ideali nella figurazione classica.

Non a caso, di lui colpisce l’assenza di languori e romanticherie. Superati i nichilismi ed i vittimismi che hanno funestato l’arte contemporanea, l’artista dà ai suoi personaggi una chiara ed esibita coscienza d’esistere. Essi sono orgogliosi, forti, positivi. Possono addirittura pensare di cambiare il mondo. E di cambiarlo in meglio.

Per Cristaudo, conseguentemente, il passato rappresenta soprattutto l’enorme patrimonio culturale italiano. Se se ne impadroniscono, i contadini della Piana possono guardare con fiducia al futuro. Potranno, almeno, porsi all’amirazione di estenuati cittadini come nuovi, ruvidi e terribili eroi – magari, vanitosi come gli antichi, se le pose sono studiate per evidenziare i muscoli che guizzano sotto la pelle -.

Persino quando in qualche interno la penombra invita alla meditazione ed alla preghiera, nella fotografia si esprime una pulizia interiore, una serenità appagata, probabilmente la stessa che ritroviamo nei personaggi che avanzano fieramente – ma, senza canaglieschi propositi di linciaggi – nel Quarto stato di Pellizza da Volpedo.

C’era una volta il poeta-vate. Oggi se ne sente la mancanza, come – penso – converrà pure Rocco Cristaudo.

Le distese di aranci acquarellate dal velo delle piogge artificiali, la Piana dove a luglio il vento di scirocco pare l’alito di Satana, la vecchia osteria a metà strada tra Scordia e Catania, abbandonata da quando morì in un incidente stradale la figlioletta dei proprietari, lo specchio d’argento del lago di Lentini sotto la luna delle notti estive…

Qualche cosa del genere si pensava che ci venisse da alcuni giovani artisti invitati a una mostra da tenersi nel Palazzo Modica di Scordia, dal titolo Arancia rossa, forma e cultura. Era, in fondo, un’oprazione pubblicitaria e si pensava a quadri a metà strada tra il celebrativo e lo strapaese.

Fortunatamente, ciò che si pensa quasi mai riesce. Non son mancate le sorprese e l’occasione è stata buona per fare il punto su alcune presenze interessanti.

Una straordinaria provocazione, per esempio, è venuta da Francesco Di Giovanni. Egli ha messo in scatola il sentimento rosso come Piero Manzoni aveva fatto con la merda d’artista. Il moto dell’animo, così, viene reso inodore e posto in vendita. Una volta esso poteva essere rappresentato dalla rivoluzione comunista, oggi è una commestibilissima arancia che dell’arancia non ha più la forma. Arancia d’autore, si legge, e per colmo d’ironia, in basso si legge ancora Al naturale.

Elisa Anfuso ha dipinto un’atmosfera che resta sospesa tra la favola ed i vecchi interni borghesi. Così, fra l’altro, recupera una pudica raffigurazione di morbidezze femminili archetipiche. Con innoccenza, però. Persino gli origami di carta e la porta a decorazioni floreali spropositatamente piccola affermano che tutto si risolve in un gioco. Al trastullo del mondo basta l’interno di un isolato appartamento. Unica presenza della natura: menza arancia poggiata sul pavimento, che col suo rosso vivo fa da pendant al vestito della ragazza. Il gioco ritorna.

L’accesa e surreale fantasia di Balsamo coglie il paesaggio rurale in una dimensione quasi chagalliana. Se il mondo contemporaneo conosce soltanto le razionali linee rette e le asettiche cromature, per il nostro artista esiste il cantuccio dell’interiorità. Lì, sciolti i lacci dell’utilitarismo, ritrovi la sola capacità dell’individuo di essere se stesso. Il tutto con una tecnica che si fa apprezzare per le soluzioni non scontate.

Delfo Tinnirello ha realizzato un’istallazione di buona forza evocatrice. La sua Scala della natura, al di là dello straniamento operato, con i pioli trasformati in bordi di quadri, è pure una scala armonica, una sinfonia di colori. Egli trova nella natura la logica e la sequenza giusta per far diventare le cose una musica per gli occhi. E’ il suo modo di essere artista, sempre nuovo e sempre sorprendentemente vero.

Gilda Fantastichini ripropone in chiave nuova l’antico tema degli archetipi. L’arancia, al di là del suo aspetto immediato, ha sostanza rossa e liquida, che si spande, mostrando in certi punti perfino qualche accenno di struttura molecolare. Il suo è una specie di iperealismo sentimentale, che vuol coniugare modernità e tradizione figurativa, con esiti per certi versi di natura neo-romantica.

Una sensualità raffinata ci viene dalla figurazione di Egidio Liggera. L’arancia che la modella morde spande il suo succo dalle labbra carnose, ravvivando il rosa candido e morbido della pelle. Lo stesso succo, così, può diventare un incomparabile ombretto, quasi metafora del liquefarsi dei corpi uniti nell’amore. E’ chiaro che in lui c’è il bagaglio tecnico del design pubblicitario; ma, mi piace sottolinearne certa verve dannunziana, all’ultima disperata ricerca del vivere inimitabile,in un mondo sempre più sordido ed opaco.

L’arte di Stefania Di Maio realizza in maniera perfetta l’accostamento tra versi e figurazione, ponendo ad appendice di una straordinariamente pulita composizione astratta una bella poesia sull’arancia rossa che potrebbe porsi come epigrafe conclusiva di questo mio racconto sulla Piana di Catania:

U sapuri duci

dill’amuri

auru di la terra

Culuratu di

lu suli

Crisci d’invernu

ma sapi d’estati

Cu li ciuri ca

sanu di festa

C’è ricchizza saluti

e biddizza.

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