Rocambole Garufi: Povero, ma bello (proposta di un Museo diffuso per superare l’arroganza di una diffusa ignoranza)

Povero, ma bello

Elogio del multiplo d’Arte

di Rocambole Garufi

Tutto sommato, ho sempre ritenuto che il primo piacere che ci procura la contemplazione di una produzione estetica è quello di riconoscerci. “Conosci te stesso” stava scritto sul frontone del tempio d’Apollo.

E le stampe hanno una funzione maieutica: ci aiutano a trovare le verità che abbiamo dentro. Anche quelle piccole, che spesso, più delle grandi, contribuiscono in maniera determinante a farci essere ciò che siamo.

Infatti, un pittore che dipinge su di una parete può anche risultarci estraneo, dato che è uno che pensa ad un’utenza passiva. L’affresco è un’arte che non dà confidenza. Il suo discorso è un monologo. Esprime, inoltre, punti di vista ufficiali, o almeno collettivi. Nemmeno i graffiti metropolotani sfuggono a questa regola: saranno pure espressioni di comunità sbandate e sotterranee; ma sempre una voce canonica sono.

L’affresco è un apparato immobile. Chi vuol vederlo si sposta. Lo si può soltanto guardare. Anzi, ogni operazione su di esso sarebbe avvertita come una manomissione barbarica. Gli affreschi sono l’epica. Le stampe, invece, rappresentano la lirica.

Col multiplo d’arte l’artista, più del manufatto, fa camminare la sua immaginazione. La bellezza che crea non ha sovrastrutture feticistiche, poiché gli originali sono le riproduzioni. Una stampa, perdipiù, la sistemi dove e come vuoi. Esporla bene o esporla male dipende da te. Con essa sei al contempo fruitore ed autore. Le stampe sono i frammenti coi quali puoi costruire il tuo museo privato.

Sono convinto, perciò, che la storia del multiplo d’arte sia antica quasi quanto quella della figurazione. A ben guardare, se ne ha già un primo esempio nei Contorni di mani scoperti sulle pareti delle caverne paleolitiche.

Vasto il raggio della loro diffusione, trovandosene paralleli in zone lontanissime, come l’Australia e la Nuova Guinea. La pittura vi è stata soffiata sopra, probabilmente per mezzo di un corto cilindro di osso.

I Profili di mano di Pech Merle, per esempio, circondano una coppia di cavalli che presentano delle macchie su tutto il loro corpo. Probabilmente, le macchie (e, a quanto pare, persino il contorno dei cavalli) sono state spruzzate con lo stesso cilindro (Collins, p. 129).

Un cilindro d’osso, quindi, è stato il primo macchinario per moltiplicare la produzione di immagini, il che contraddice il pregiudizio romantico che pone nell’unicità il valore dell’arte. Infatti, al contrario di ciò che succede alla merce volgare, l’arte non conosce inflazione.

Poi, ci sono state le Pintaderas. Si tratta di piccoli arnesi di terracotta a forma ovale, o circolare, o quadrangolare, che presentano una faccia appiattita nella quale, profondamente incisi, vi sono dei motivi ornamentali. Si pensa che servissero per la pittura del corpo.

L’area della loro diffusione è amplissima (praticamente, tocca tutti i continenti). Per la preistoria euro-asiatica, va dall’Anatolia all’Egeo, alla regione balcanica, all’Italia.

In Oriente le Pintaderas funsero pure da sigilli e furono fabbricate in pietra. Quelle trovate in Italia partono dal neolitico e vanno oltre l’età del bronzo. Il gruppo più numeroso proviene da Finale ligure (Grotte delle Arene Candide, Pollera, Arma dell’Aquila, Sanguineto, etc.); ma ne sono state trovate pure in Lombardia, nel Barese, nel Salento e in Sicilia.

Riguardo alla loro figurazione:

“I motivi possono essere semplici (linee a zig-zag, linee ondulate) o alquanto complicati (dischi concentrici, spirali, ecc.); possono anche ripetere disegni incisi o dipinti sulle ceramiche di vario tipo o epoca, o anche riprodurre figure presenti nell’arte rupestre (esempio: la pintadera della caverna pugliese dell’Erba e i “pittogrammi” delle Grotte di Porte Badisco e Cosma).

“In conclusione, i motivi delle pintaderas appaiono, almeno in parte, legati a quello stesso geometrismo che caratterizza le figure emblematiche di oscuro significato che ritroviamo nella pittura parietale neolitica e più tarda, figure che proprio per questa loro collocazione non perseguivano uno scopo decorativo, ma che tale valore acquistavano, pur conservando il loro profondo originario significato, quando venivano impiegate nell’ornamentazione vascolare” (Graziosi, pp. 96/97).

Se, infine, teniamo conto che probabilmente in Oriente le Pintaderas furono i primi sigilli storicamente attestati, potremmo collocare già nel neolitico l’inizio dell’arco temporale in cui indaga la sfragistica, dal greco sfraghìs, cioè:

“1. Suggello, sigillo, impronta;

2. anello, con impronta, per sigillare” (Diz. La Magna-Annaratone).

Eccoci, così, arrivati al legame tra arte e scopi pratici. I sigilli, infatti, servivano a chiudere i documenti ufficiali (come presso i romani), o ad autenticare un messaggio (come nel medioevo).

Le prime sicure testimonianze di tale uso le troviamo fra gli assiro-babilonesi: cilindri di pietra intagliata all’intorno e traforati in lunghezza per poter essere appesi al collo.

Gli Scarabei egiziani, poi, rappresentarono un notevole ingentilimento estetico, acquistando la forma di timbro ellissoidale, che ben presto si diffuse in tutto il Mediterraneo, anche perché consentiva la possibilità di montare il sigillo come pietra di anello.

E non a caso con gli scarabei nacque il gemello dell’arte: il collezionismo di opere d’arte (Tacconi).

La necessità di rendere difficili le contraffazioni contribuì molto a complicare i disegni incisi nei sigilli.

Con i minoici, pare che le scritture e le simbologie religiose caratteristiche delle produzioni precedenti furono, finalmente, sostituite dal gusto degli artisti.

Il sigillo protominoico in avorio trovato da Arthur Evans nelle tombe di Messarà (e pubblicato in Palace of Minos) appare perciò di straordinaria importanza perché vi compare una figurazione astratta tutta giocata sul perfetto equilibrio dei vuoti e dei pieni, delle linee curve e delle linee rette, della rotondità del bordo e del tendenziale quadrato dell’interno (peraltro attraversato da una x).

Come si vede, non si tratta più di mera informazione, ma di un presentarsi al mondo in cui prestigio e buon gusto sono sinonimi. Una storia parallela a quella del multiplo che raffigura l’immaginazione è quella del multiplo che raffigura il pensiero, cioè la scrittura. Sono, così, diventati oggetti della mia collezione i cataloghi di alcuni musei, di solito pochissimo visitati.

Per esempio, a Gubbio, c’è il Museo Comunale di Palazzo dei Consoli, dove si trovano sette tavole di bronzo coperte da una scrittura il cui contenuto costituisce l’unico accesso all’antica società umbra.

“Si tratta di lastre rettangolari le cui dimensioni in centimetri vanno dai 28x40x0.4 ai 57x87xo.45. il peso va dai kg. 2,590 della più piccola, la IV, ai kg. 7,610 di quelle medie, come la I, fino ai kg. 15,920 della VI. Le tavole sono scritte sulle due facce, tranne la III e la IV. Alcune sono iscritte con grafia etrusca adattata, e precisamente lo sono le facce a e b della tavola I, le facce a e b della tavola II, le tavole III e IV, nonché la faccia a della tavola V, le prime sette righe della faccia b della stessa. Le facce a e b delle tavole VI e VII, nonché le ultime undici righe della faccia b della tavola V sono scritte con grafia latina…”(Ancillotti-Cerri, p. 9).

Probabilmente, questi reperti rappresentano il più importante testo rituale di tutta l’antichità classica. Ma, anche in Sicilia sono riemerse testimonianze di tutto rispetto delle civiltà antiche. Una visita al Museo Archelogico “Antonino Salinas” di Palermo sarebbe illuminante a tal proposito. Vi si trova, tra l’altro, la cosiddetta Pietra di Palermo, che il museo possiede dal 1877 (anche se non si sa come vi sia arrivata).

Essa misura cm. 43×30,5 e risulta essere parte di una stele che si ipotizza essere stata eretta in un tempio. Scritta in caratteri geroglifici, essa è il più antico testo di storia presente nell’isola, poiché contiene la cronologia e gli eventi delle prime dinastie (3.238-2.290 a. C.).

Sempre nel “Salinas” vi sono, ancora, testimonianze su: -La lingua degli elimi, attestata in alcuni frammenti ceramici del VI e del V sec. a. C. trovati a Se gesta.

Da Entella viene pure il famoso IX Decreto Entellino del IV sec. a. C., in cui gli entellini concedono la cittadinanza ai segestani, in rigraziamento dell’aiuto ricevuto durante il loro esilio.

Sulla lingua dei siculi possiamo azzardare l’ipotesi che questi fossero una popolazione italica (o italicizzata), indoeuropea in ogni caso. Lo testimonia la cosiddetta Iscrizione di Centuripe, dove, come notò il linguista Carlo Tagliavini:

“Il carattere indoeuropeo del Siculo è fuori di dubbio (abbiamo, per esempio, accusativi in –om dei temi in –o, un pronome tebei corrispondente al latino tibi.”

Vi è, inoltre, la testimonianza di un vaso della fine del VI (o dell’inizio del V) sec. a. C. trovato a Montagna di Marzo.

La lingua fenicia era parlata a Cartagine (detta pure neofenicio o punico). Essa si diffuse in molte città della Sicilia occidentale, quali Mozia, Solunto e Palermo.

Era una lingua affine all’assiro ed al babilonese e come l’arabo e l’ebraico si scriveva da destra a sinistra.

Ha lasciato traccia di sé nelle iscrizioni sulle monete e soprattutto nella Stele votiva dedicata a Baal Hammon figlio di Adonibal del III sec. a. C., proveniente da Lilibeo. La civiltà siceliota nata da tanto miscuglio diede il meglio di sé nell’arte della monetazione.

La lingua dei berberi, che ha lasciato traccia nella Tavoletta di terracotta del IV sec a. C., in alfabeto libico, proveniente da Prizzi, Montagna del Cavallo.

Ben presto, così, mi sono accorto che diventava riduttivo pensare di esaurire il scorso sull’illustrazione libraria, lasciandolo all’interno della storia della distampa. In verità, essa è stata la decima musa, ben prima che di questa definizione se ne impadronisse il cinema.

E c’è di più: pur essendo un’arte, antica oggi è lungi dall’essere al tramonto. Faccio notare, per esempio, che il design novecentesco dei libri, dei manifesti, dei rotocalchi, delle copertine dei dischi (di tutto ciò, insomma, che mette insieme immagine e parola) ha avuto punte estetiche superiori a quelle di molta arte a torto considerata maggiore.

Mesi dopo i nostri primi approcci, quando ormai era diventata rassegnata vittima dei miei entusiasmi intellettuali, lo dissi alla collega di geografia:

“Questi disegni sono i figli poveri della storia dell’arte.”

“Poveri, ma belli” concluse lei, citando un vecchio film.

Era quasi la vendetta del cinema, per avergli tolto il posto di decima musa.

Percorsi bibliografici:

Paolo Graziosi, L’arte preistorica in Italia, Firenze, Sansoni, 1973;

Desmond Collins, L’avventura della preistoria, Roma, Newton Compton, 1980;

David H. Trump, La preistoria del Mediterraneo, Milano, Mondatori, 1980;

Catherine Louboutin, Il neolitico – Alle origini della civiltà, Universale Electa-Gallimard, senza indicazione di luogo, 1993;

Giovanni La Magna – Alessandro Annaratone, Vocabolario greco-italiano, Milano, Signorelli, 1975;

Per il collezionismo di scarabei cfr. la narrativa straordinariamente documentata di Bruno Tacconi in La verità perduta, Milano, Mondatori, 1977;

Ignazio Scaturro, Storia di Sicilia, Raggio, Roma, 1950;

Tucidide, Guerra del Peloponneso, trad. Ezio Savino, Milano, Garzanti, 1980;

Carlo Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Pàtron, Bologna, V edizione, 1969, p. 118;

Margaret Guido, Guida archeologica della Sicilia, Palermo, Sellerio Editore, 1978;

R. Ross Holloway, Archeologia della Sicilia antica, Torino, Società Editrice Internazionale, 1991;

Eugenio Manni, Sicilia pagana, Flaccovio, Palermo, 1963;

M. I. Finley, Storia della Sicilia antica, Laterza, Bari, 1979;

Cirino Gula, Storia di Leontinoi (dalle origini alla conquista romana), Catania, C.U.E.C.M., 1995;

Enrico Acquaro, Cartagine: un impero sul Mediterraneo, Club del libro Fratelli Melita, La Spezia, 1980;

Sabatino Moscati, Alla scoperta della civiltà mediterranea, Roma, Newton Compton, 1979.

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