Considerazioni su un dipinto di Giacinto Platania (“Madonna della Stella”, Tesoro del Santuario della Madonna della Stella, Militello in Val di Catania, Sicilia) – di Rocambole S. P. Garufi

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Considerazioni massoniche su un dipinto secentesco che si conserva a Militello:laMadonna della Stelladi Giacinto Platania

di Rocambole S. P. Garufi Tanteri

C’è stato un tempo in cui l’ambiente e gli individui si assomigliavano. Fu, infatti, proprio in un istituto scolastico brontese, il Real Collegio Capizzi, che, sul finire del Settecento, Vincenzo Natale provò le sue prime passioni forti e, come spesso disse in futuro, sognò di cambiare il mondo.

Da adolescente, Vincenzo parteggiò per i rivoluzionari francesi, vedendone alcuni come dei nuovi Milziade e dei nuovi Leonida; finché, spuntato l’astro napoleonico, poté finalmente ammirare un nuovo Alessandro Magno. Per il suo carattere, però, un tipo come Robespierre faceva paura. Preferiva l’ironia di Voltaire, o la libertà di pensiero di Diderot e D’Alembert. Fra l’altro, questi erano autori molto presenti in Sicilia, soprattutto nella casa paterna. Ed insieme a loro, in quel periodo di dominante neoclassicismo, c’erano gli scrittori greci e latini, gli storici soprattutto.

Il suo orizzonte, insomma, era chiuso nei libri. Gli esempi familiari, infatti, lo portarono sempre a considerare affari intellettuali, sia la vita che la politica, quindi non poteva diventare mai un ammiratore di Saint Just, anche se il mondo che sognava era molto simile a quello del rivoluzionario che aveva mandato a morte il re di Francia.

Ad un modello del genere poteva casomai ispirarsi il suo compagno di banco, Nicola Lombardo, che nello studio non andava oltre una dignitosa sufficienza. Ma, il metro e ottanta di muscoli e l’indole generosa gli garantivano l’universale rispetto. Perciò lo chiamavano Spartacus, per le idee rivoluzionarie e per il forte senso di giustizia. I discorsi e le elaborazioni teoriche, invece, Nicola li lasciava a Vincenzo.

Ambedue, all’insaputa l’uno dell’altro, finirono, poi, per innamorarsi di Adele Faraci, nipote del loro professore di latino e greco, don Nunzio Longhitano. Fu, però, Spartacus a dichiararsi ed a sposare la ragazza. Vincenzo, pur pensando che di nessun’altra donna si sarebbe mai più innamorato, si limitò a mantenere irreprensibili e formalissimi rapporti con la coppia. Col particolare, però, che, quando le vicissitudini politiche lo portarono a nascondersi a Bronte, le malelingue parlarono di una sua relazione con donna Franca Faraci, vedova Solimena e sorella minore di Adele.

Per la stretta amicizia tra le famiglie dei Lombardo e dei Natale, il giovane Nicolò, nipote di Spartacus, prima di diventare mazziniano, fu un ammiratore di Vincenzo. I due strinsero i legami negli ultimi mesi del 1850, quando ormai il vecchio politicante aveva abbandonato ogni velleità di carriera e sperava di ottenere una semplice cattedra all’Università di Catania. Nicolò, appena sedicenne, era venuto a vivere a Militello, mandato dal nonno, perché il ragazzo era rimasto orfano del padre, colpito dal coltello di un marito geloso.

Il loro dialogo fu intenso e pieno di reciproca stima, anche se non privo di contrasti caratteriali. Come, d’altra parte, risultò chiaro una mattina nella sacrestia della chiesa dell’Immacolata Concezione.

Erano davanti alla secentesca Madonna della Stella dell’acese Giacinto Platania.

“Non guardarlo come l’immagine di una Santa, questo quadro” commentò Vincenzo, indicandoglielo. “Pensalo come il ritratto di una regina che sta splendida e sicura sul suo trono, a mettere ordine nel disordine del mondo. Io l’ho sempre visto quale la perfetta raffigurazione di un programma di governo, che ho sognato di realizzare per quarant’anni e che la litigiosità dei baroni ha impedito.”

“Vedo che lei, nonostante le delusioni, resta un ministeriale” rispose Nicolò. “E ciò le viene dalla sua natura di studioso. Io, invece, non credo alle manovre della politica e preferisco la rivoluzione.”

Per una volta, Vincenzo si accalorò. “Non è possibile la rivoluzione, in Italia. A meno che tu non chiami rivoluzione gli sballati colpi di mano di Mazzini!”

In effetti, bisogna ammettere che la felpata e morbida attività istituzionale in cui Vincenzo eccelse non produceva effetti molto spettacolari. Per tutta la vita, la sua figura restò dietro le quinte, pronta a gettare la pietra della congiura carbonara, ma altrettanto pronta a nascondere la mano.

Come si vedrà nel resto della sua vita, Vincenzo seppe bene una cosa, soprattutto: chi è ricco di amici è scarso di guai.

Ecco perché cercò amici in tutti gli schieramenti in campo. Era il suo modo naturale di far politica. Voleva i cambiamenti radicali. Ma, ogni cosa a suo tempo, cioè con nuove leggi e senza contrapporsi alla legge. Preferì travagliare le teste coi libri ed i discorsi parlamentari, senza solleticare i cuori coi proclami.

Ciò si rivelò un ottimo sistema per farsi trascurare dalla storia. Espose, infatti, le sue idee al giovane Nicolò, in una lettera dell’autunno del 1854, qualche mese prima della morte:

“Come le donne, la storia guarda i muscoli e non la testa. Le idee sono il vento e le azioni le vele delle navi. Chi vede il vento all’orizzonte? Soltanto se ci stai sotto le vele si mostrano strattonate dall’aria che le gonfia. La storia di solito guarda il mare dalla riva: vede il bianco della tela contro l’azzurro del cielo, vede lo scafo che taglia le onde, vede in che direzione va la nave… Ma, non si cura di sapere da dove (e perché) viene il vento, né si sofferma a misurarne la forza.”

“Io, allora” gli rispose il discepolo, a stretto giro di posta, “voglio essere la vela dell’albero maestro.”

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