Brancati, Vitaliano – I e II capitolo della monografia su di lui scritta da Rocambole S. P. Garufi

Rocambole S.P. Garufi Tanteri

Il volo del gallo

Vitaliano Brancati (1907-1954), biografia letteraria

dello specchio di una generazione

PARTE I

L’UOMO, LO SCRITTORE

1

L’ambiente familiare: una trottola che si muove, ma non procede.

Chi era Brancati? In che cosa credeva?

Egli stesso impiegò un’intera vita a dircelo, fino a soffocare la sua arte dentro la sua ideologia. Era un buon laico all’antica, irremovibile nel suo concetto di libertà senza alcun aggettivo appicciato dietro.1

All’origine di questa concezione sta un preciso ambiente sociale: la media borghesia intellettuale vivente nella provincia siciliana culturalmente arretrata.

Brancati nacque a Pachino, cittadina dell’estremo Sud della Sicilia, il 24 luglio 1907 da Maria Antonietta Ciàvola e da Rosario Brancati. Il padre esercitava la professione dell’avvocato. Sull’ambiente familiare, poi, è interessante il racconto del fratello Corrado, in un articolo apparso su “LA SICILIA”:

“Mio padre, funzionario assai rigido (ancora lo ricordano) di Prefettura, era allora molto noto per gli articoli che pubblicava con lo pseudonimo ‘Il Ghirlandaio’ nel vecchio ‘Giornale dell’Isola’ di Catania fondato, mi pare, dai fratelli Carnazza, uomini politici assai noti, uno dei quali, Gabriello, avvocato di vasta rinomanza, fu anche ministro.

“Scriveva anche novelle che piacevano molto alle donne e che risentivano delle letture di Gabriele D’Annunzio di cui mio padre era fervente ammiratore, tanto da tenere nello studio un grande ritratto dello scrittore. Nella biblioteca paterna, accanto a tutti i libri di D’Annunzio, si ammassavano libri di politica, di diritto e, in gran numero, romanzi: di Tolstoj, di Dostojevski, di Turghenev, di Bourget, di Balzac, di Zola, di Prevost, di Maupassant, sono quelli che ricordo, oltre ai molti classici italiani, da Manzoni a Carducci, a Pascoli e ai romanzi d’attualità come quelli di Guido da Verona. “Mia madre, che idolatrava mio fratello affettuosamente ricambiata da Vitaliano, era una bravissima donna di casa, che si sacrificò molto per la famiglia [..]“ 2.

I miti tanto cari all’iconografia siciliana, come si vede, ci sono tutti: il padre, eccentrico nei gusti letterari, ma funzionario “rigido” (e, ovviamente, pure onesto, incorruttibile, “buon padre” non solo dei suoi figli, ma di tutti i suoi amministrati). Per qualche anno, infatti, egli fu commissario prefettizio a Militello in Val di Catania, conducendo un’inflessibile lotta all’abigeato (come risulta dai documenti dell’Archivio Storico del luogo).

Le sue pretese culturali, invece, furono una perfetta palestra per il Brancati “fascista”.

La madre, inoltre, era traboccante di esasperato amore per il figlio. E quanto ciò lo soffocasse ce lo dice Brancati stesso in un brano di Gli anni perduti:

“Oh, le mamme sono le nostre peggiori nemiche – osservò Rodolfo De Mei – queste mamme siciliane che fanno i figli e poi se li mangiano. –

-Rodolfo! – Gridò la signora Careni. – Non si parla così con una madre! Che screanzato, Dio santo!

– Non è vero, forse? Mia madre, da dieci anni, vale a dire dalla sera in cui presi l’abitudine di andar fuori, mi dice sempre: “Rodolfo, mammuccia, tua, non rincasare tardi!” ed io rispondo: “Ma ti pare?” Dieci anni di ‘Rodolfo, mammuccia tua, non rincasare tardi’ e dieci anni di ‘Ma ti pare?’ sono qualcosa che fa pensare. Ma il sogno di mia madre è che questo possa durare ancora trent’anni. “3

L’unica persona della famiglia col quale era riuscito a legare e a raggiungere il “perfetto accordo”, fu il nonno materno che, quando nel ’33 morì, gli fece scrivere queste parole:

“Sapevo bene che l’uomo non muore tutto in una volta, ma età per età, e sapevo che l’età dell’uomo sono due: la fanciullezza e la maturità. Quell’anno, non s’era vista un’ala nel cielo, e la mia prima età era morta. Mi rimaneva ancora un’altra età: il tempo per essere onesti, per essere veritieri, e soprattutto semplici, io l’avevo ancora. Ma una parte della mia vita era terminata, uno dei miei occhi s’era chiuso per sempre”.4

Non mi sembra però che la figura del nonno sia destinata ad avere un’eccessiva importanza o incidenza nella formazione del carattere di Brancati, o nell’evoluzione della sua arte, se non come cantuccio di raccoglimento. Nel complesso, forse, la si può ravvisare soltanto in certe figure di anziani di alcuni romanzi (es. lo zio di Antonio nel Bell’Antonio), che svolgono la funzione di angiolino riservato ai sentimenti personali dell’autore, un po’ come i cori manzoniani.

La fanciullezza di Brancati fu, nel complesso, abbastanza normale per l’ambiente in cui s’era trovato a crescere e, soprattutto, fu molto ricca di successi scolastici.

A diciassette anni fece il suo esordio nella politica, iscrivendosi al Partito Fascista, il 4 febbraio del 1924. Più tardi, nel 1929, si laureò in Lettere col massimo dei voti e la lode, discutendo una tesi su Federico De Roberto (che in secondo momento rinnegherà, insieme a tutti gli altri scritti “fascisti”).

Della giovanile adesione al fascismo saranno impregnate tutte le opere fino a circa il 1933, anno al quale, secondo Vanna Gazzola Stacchini, si può far risalire l’inizio della crisi (forse in parte causata da una lettera che il Borgese, di cui era fervido ammiratore, gli inviò l’8 luglio del 1933); e sebbene questa prima maniera di scrivere presenti qualche ingenuità di stile, la stessa risulta vitale per una non distorta comprensione dell’uomo e dell’artista Brancati.

Cosa fu, in definitiva, che spinse Brancati al fascismo, oltre all’ambiente familiare particolarmente adatto.

Per la Stacchini:

“Tale scelta ebbe un carattere di reazione alle condizioni di vita della sua isola, la cui storia era tendente ad un immobilismo che non poteva non riflettersi nella coscienza e nel costume dei suoi abitanti; in questo senso la sua reazione ebbe un significato assai più profondo che non abbia avuto per la borghesia italiana in genere, annoiata e nello stesso tempo spaventata dal nuovo.

“Brancati cercava il nuovo, invece, some superamento di quelle condizioni metastoriche siciliane e del senso di vuoto che derivava dalla posizione di isolato; perciò egli disse di questo tempo: ‘In certe epoche non bisognerebbe mai avere vent’anni’5.

Sullo stesso tema dell’adesione al fascismo si esprime anche il critico Enzo Lauretta che, in risposta alla Stacchini, dice:

“A 17 anni Brancati, per quanto maturo fosse, non s’era ancora posto alcun problema sociale né credo avesse coscienza, neppure a livello epidermico, delle condizioni metastoriche dell’Isola. Non c’è un solo rigo che stia a dimostrarlo”6

E ancora:

“Certo il desiderio di novità giocò la sua valida carta ma, più che un desiderio di rottura per le condizioni dell’Isola, a spingerlo verso il fascismo fu il tipico atteggiamento ‘del giovane intellettuale tutto impregnato di cultura decadente’”7

Io arricchirei il pensiero del Lauretta sviluppando ulteriormente un concetto che il critico stesso aveva messo in evidenza prima di fornirci la sua tesi sul fascismo il Brancati: la vittoria dell’uomo attivo sul pensatore.

Complice involontaria una madre che con il suo pernicioso affetto non lo lasciava crescere, e mai gli permise di abbandonarsi alla sensazione di sentirsi un vero uomo8

Sempre in Gli anni perduti, una frase che Brancati fa dire alla madre del protagonista mette in evidenza il senso di soffocamento per l’affetto eccessivo delle ma-dri siciliane: “ ‘Guardate un po’ se i bambini sono svegli!?’ Uno dei bambini sarei io, e l’altro mio fratello minore che ha venticinque anni.”

Tutta la propaganda fascista era incentrata proprio su questi postulato base e in ciò era la “novità” del regime e la sua enorme presa sui giovani.

Così, nello scrittore, alla fine, in maniera del tutto confusa, di assommarono la reazione, la ribellione, i miti e i pregiudizi ereditati dalla famiglia. Si provi adesso a mischiare questa maionese impazzita di sentimenti, e, inevitabilmente verrà fuori il fascismo, o il comunismo – cioè le due espressioni infantili, estremiste e violente dell’aspirazione all’identità nazionale, o alla giustizia sociale -.

Chi non ricorda gli “astratti furori” del Vittorini di Conservazione in Sicilia? Certo, la situazione e il contesto storico sono diversi, ma forse uguale fu la “velleità” – concetto che merita ulteriori sviluppi, per capire la nostra epoca.

Il fascismo per Brancati, insomma, rappresentò una risposta positiva al suo bisogno di movimento, alla sua sete di certezze che gli rendessero meno vaghi i contorni e i perché della sua vita. Era un bagaglio che serviva a individualizzarlo, poiché era una sorta di prova dell’esistenza che cercava, anche se. per cercarla, aveva scelto la maniera più facile: quella delle certezze già confezionate, le certezze che il Regime aveva “costruito” e dato in pasto alle masse.

Brancati stesso ci dette la chiave di questa interpretazione, quando spiegò la nascita delle dittature:

“Secondo me la risposta la si trova nella scarsa vitalità di cui dispone la nostra epoca. La vitalità di un uomo può assumere una forma così poco indipendente e individuale da riuscire veramente a moltiplicarsi a contatto con la vitalità di altri uomini. Udire il proprio passo nel rumore generale di altre migliaia di passi esalta come se quel fragore venisse tutto dal nostro piede. Ci si sente elevati alla massima potenza proprio nel momento in cui non si conta più nulla“9

E ancora:

“Cosa farà lo stupido per provare l’ebrezza del genio? Farà massa. Così, urlando lo stesso urlo insieme a centomila altri, crederà che l’umanità intera parli della sua bocca spalancata”10

Ma cos’è la vitalità, se non l’esplicazione di una nostra presunta vita? Cosa significa raggiungere l’universale, Salvando l’io, se non salvare l’io tout court e afferrarlo nella sua intima essenza (almeno presunta)?

  1. 1 In Ritorno alla censura, Brancati svolge tutta un’interessante analisi sul concetto di “libertà”, confutando l’uso che le “epoche dogmatiche” (come le chiama lui) hanno fatto di questa parola. In particolare, la “libertà dal male” dei cristiani, oltre che approssimativa, gli risulta forzatamente sintetica poiché sottintende tutta una serie di “in quanto” del tutto arbitrati (Dio in quanto sommo bene è somma libertà; la Chiesa in quanto depositaria della parola di Dio è somma libertà); per la “libertà dal bisogno” dei comunisti, poi, sarebbe meglio parlare di “agiatezza”.

(-) In definitiva, la vera “libertà” è la capacità di non sottoporre ad alcuna autorità, che non sia la propria coscienza, valori assoluti come il Bene, la Verità, la Bellezza. (Vitaliano Brancati Ritorno alla censura, in La governante, Bompiani, Milano 1974)

2 Corrado Brancati, Vitaliano, mio fratello, in “LA SICILIA”, 23/07/1976.

  1. 3 Vitaliano Brancati, Gli anni perduti, Mondadori, Milano, 1976, pag.14.
  1. 4 In Enzo Lauretta, Invito alla lettura di Vitaliano Brancati, Mursia, Varese, 1973, pag. 33.
  1. 5 Vanna Gazzola Stacchini, La narrativa di Vitaliano Brancati, Oleschki, Firenze, 1970, pag. 5.
  1. 6 Ivi, pag.30
  1. 7 op.cit., pag.14.
  1. 8 Enzo Lauretta, op. cit., pag. 29.

9 Vitaliano Brancati, Le due dittature, Associazione Italiana Per La Libertà Della Cultura, Roma, 1952, pag. 9.

10 Ivi, pagg. 10/11

2

Il contesto culturale del giovane Brancati a Militello, tra il “vivere inimitabile” di D’Annunzio ed echi delle Avanguardie

Fin dagli esordi, come vedremo, nella sua scelta per il primato dell’uomo attivo sull’intellettuale, Vitaliano Brancati fu uno specchio della Vocazione al fallimento, tipico della contemporaneità post-romantica.

Per darne un’idea in Sicilia, bastano gli esempi dei Vinti verghiani. Però, si può pure continuare con gli Inetti di Svevo e gli Indifferenti di Moravia.

Più specificamente, infine, Brancati sembrò dirci che il cancro antico dei catanesi non è il Cambiar tutto, affinché tutto resti come prima del De Roberto (e, in seguito, del Lampedusa), ma l’opaca Filosofia dell’interesse egoistico.

Tutti i personaggi di Brancati – nessuno escluso – vanno incontro a terrificanti sconfitte, bloccati dalla paura di perdere le posizioni di partenza.

Jaddina ca camina o si ruzzola o si rovina!” dice il loro proverbio.

Se, però, non ci si allontana troppo dalla propria nassa ed il verbo camminare non indica alcun allontanamento, ma è soltanto un sinonimo del “darsi da fare”, ecco che lo stesso proverbio diventa:

“Jaddina ca camina avi sempri a vozza china!”

La loro malizia è nascondere una natura vigliacca dietro vanterie da miles gloriosus plautino. Viene da qui l’impassibilità – già presente in Verga – nei confronti della Religione, della Storia, della Morale e di tutto ciò che è astratto, fin quasi ad arrivare all’elaborazione di un seguitissimo Catechismo dell’interesse personale, molto più seguito nella levantina Sicilia Orientale rispetto al resto del mondo. A Militello in Val di Catania, infatti, la parola “nfamiu” non è un’offesa, ma un sinonimo di “furbizia” e pensiero sveglio.1

Questo, in sostanza, spiega l’accanimento con cui Brancati ridicolizzò il bullismo erotico dei compagni di infanzia. In altre parole, rgli volle rendere visibile il fallimento delle icone del suo tempo, prima quelle del valore guerriero e poi quelle della virilità. Le due cose bastarono a destare l’attenzione della censura di regime. La coscienza della crisi, così, arrivò nel 1933, forse occasionata da una lettera del Borgese dell’8 luglio 1933. Ma, quale era stato, ripeto, il moto interiore che aveva spinto Brancati ad aderire al fascismo? L’ambiente familiare? La bulimia di vita di Gabriele D’Annunzio? La noia, come la descrisse Alberto Moravia? Il rifiuto dell’inetto tratteggiato da Italo Svevo?

Direi che ci fu tutto questo… e qualche incertezza caratteriale.

Penso, infatti, che a portare Brancati al fascismo fu semplicemente l’egemonia culturale della filosofia di Giovanni Gentile e di Benedetto Croce (già studiosi dell’opera di Carlo Marx), in contrapposizione al grigiore amorale del positivismo dominante nell’Italietta giolittiana. Lo stesso Antonio Gramsci si travestì da filosofia della prassi il suo impegno comunista, arrivando a proporre un’egemonia culturale nazional-popolare, che nell’editoria e nei mass-media di oggi significa, soprattutto, tenere il cuore a Sinistra ed il portafogli a Destra.

Per tale paradosso della cultura politica la mente corre a un titolo pirandelliano: Ma non è una cosa seria. Nella più varia realtà e nel teatro dell’agrigentino, infatti, la parola prevarica i fatti.: basta dirsi di Sinistra per essere nei fatti un reazionario di Destra. Così, in Pirandello un signore dai facili innamoramenti sposava una sciatta padrona di albergo per salvarsi dai pericoli matrimoniali dei suoi provvisori entusiasmi sentimentali. Le parole, quindi, non sono pietre, come disse Carlo Levi, ma siepi leopardiane, che di tanta parte dell’ultimo orizzonte dell’Universo escludono lo sguardo.

Il palliativo delle certezze ideologiche, già pronte e cucinate, però, non poteva durare a lungo. Infatti, dolorosa come tutte le fasi di passaggio – e, come queste, pure ambigua -, ben presto arrivò la crisi:

“Nell’agosto del 1932 appare un suo racconto (Nella mia ombra) nel quale si adombra un inizio di crisi nelle fiducie umane che sembra derivare da una crisi ideologica: un senso di angoscia per la precarietà della vita, un senso di solitudine. A questo momento deve corrispondere la spaccatura del suo mondo spirituale, tanto più in quanto in esso Brancati aveva creduto di soddisfare quell’io collettivo che era stato frustrato (di questa gioia perduta è forse il riflesso della luce che improvvisamente abbandona Leonardo ne Gli anni perduti).”

Questo avvio di crisi non fu passeggero e portò Brancati lontano, a soluzioni addirittura opposte. Il suo allontanamento dal gusto ufficiale si fece man mano più marcato. Nel dopoguerra si trovò agli antipodi della sua posizione iniziale. Da spregiatore del pensiero per l’azione diventò squisitamente speculativo e il disprezzo per la filosofia di Benedetto Croce si trasformò in devozione – lesse Antonio Gramsci per contestarlo e preferirgli Benedetto Croce.”2

In verità, però, già in una Antologia militellana, pubblicata da un don Mario Ventura – volenteroso, ma confusionario storico locale -, vengono riportati due sonetti del 1923, precedentemente pubblicati da Giovanna Finocchiaro Chimirri.

Putroppo, non sono in condizione di assicurare la correttezza della trascrizione, avendo conosciuto il nostro don Mario Ventura e sapendone l’approssimazione espositiva, per cui ho dovuto correggere il Ventura a mia volta, almeno nei suoi evidenti strafalcioni metrici (e qualcuno grammaticale).

Comunque, eccoli:

A Militello

O Militello, terra mia gloriosa,

di condottieri culla e di sottili

ingegni, fra le mura antiche ascosa,

tua gloria vedo di opre tue virili.

Chiamata fosti un dì la Bellicosa

intrepida fra le contrade ostili

benessere portasti d’operosa

e nobil stirpe di virtù civili.

Ed oggi ancor di tue vestigia fieri

di allor cingon la vetusta fronte

tanti figli dell’arte e son nocchieri

che bevver storia alla tua viva fonte,

giovani dotti, baldi cavalieri,

portando ovunque le romane impronte.

Nel secondo sonetto, invece, Brancati abbandona gli echi classichegganti e stentorei per un classicismo alla Giosuè Carducci, in quegli anni molto di moda a Militello, tanto da ispirare lo pseudonimo di un coevo poetino locale, Enrico Fagone, in arte Giosuè Sparito. C’è, in più, un pensoso e precoce disincanto, come in Giovanni Pascoli:

Autunno (nella valle di Lordiero)

Dentro il sommesso gemito dell’onda

si chiude un sogno musicale e lento,

brilla il cielo lontan, tra fronda e fronda,

vago di non so quale incantamento.

Più roco canta dentro la profonda

selva di pini e di cipressi il vento;

cade silente qualche foglia bionda.

Tutto muore con tenero lamento.

Su le siepi serrate verso oriente

sboccia la Luna. Simile a un altare,

levasi un poggio verde. Vagamente

canta sui colli l’autunno ed il mare

riproduce il miracolo fuggente

dove l’oro incomincia a dileguare.

Questa poesia ha una musicalità lenta e solenne (in verità, più vicina al Giosuè Carducci de Il bove), che, però, forse non sarebbe dispiaciuta al Gabriele d’Annunzio di La pioggia nel pineto.

In ogni caso, appartiene a un filone di trasognati en plein air impressionisti. Bellezza provvisoria che il tempo sostiene e poi recide, simbolo della bellezza giovanile delle dinastie umane, così come già la cantò l’immenso Omero mettendo sulla bocca dell’eroe troiano Glauco queste parole:

“Magnanimo Tidìde, a che dimandi il mio lignaggio? Quale delle foglie, tale è la stirpe degli uomini. Il vento brumal li sparge a terra, e le ricrea la germogliante selva a primavera. Così l’uom nasce, così muor…”

Subito dopo, Brancati iniziò la sua vera carriera di scrittore con tre opere teatrali, tra il 1924 de il 1928: Fedor, Everest e Piave. Tutt’e tre questi drammi non spiccano affatto né per pregi d’arte, né per profondità di contenuti. A dettarli, in perfetta continuazione con gli ideali classicheggianti dei sonetti, è la sua entusiastica adesione al fascismo, come ha già messo in evidenza la Jannuzzi:

“La forza fisica gli sembra addirittura la condizione indispensabile per ogni qualità virile, e scarta baldanzosamente tutto ciò che induce alla riflessione, non esclusi i libri di Croce”

Avendo vissuto buona parte della mia vita negli stessi luoghi del giovane Brancati, probabilmente annoiato come lui – o, più probabilmente, gregario rispetto al particolare bullismo che vi imperversa – non addebiterei al fascismo questo suo culto della forza fisica.

Una lunga abitudine alla sconfitta ed al servaggio, infatti, ha reso troppi siciliani più ammiratori della forza che forti. Come tutti i Sancio Panza essi sono scimmie senjza testa dei don Chisciotte del Potere. Ne copiamo la forma senza capirne i contenuti.

Per esempio, nella novella L’amante di Gramigna Giovanni Verga chiarisce bene questo concetto, raccontandoci di una ragazza di Licodia Eubea che si innamora di un brigante soltanto in base alla sua fama di imprendibile. Diventane l’amante, quando Gramigna viene ucciso dai carabinieri in un conflitto a fuoco, ella passerà il resto della sua vita a rendere un sostanziale omaggio alla forza che ha saputo essere più forte del suo uomo. Qui, così, è evidente l’idea che la forza trovi in se stessa la sua giustificazione. Ciò ha determinato le tante guerre di campanili e – se si guarda in fondo – la stessa mafia.

Spesso, i siciliani si organizzano un loro personale universo, del tutto estraneo alle idee che agitano la grande Storia. Apparentemente, i loro potenti assomigliano ai potenti della commedia romanesca, ma non ne hanno l’auto-ironia. Sono permalosi nella forma e accomodanti nella sostanza. Vivono in un involucro simile a quello del sonetto Er paradiso di Giuseppe Gioacchino Belli:

No, Reggina mia bella, in paradiso

nun perdi tempo co gnissun lavoro:

nun ce trovi antro che violini, riso,

e pandecèlo, ciovè pane d’oro.

Là, a dà udienza ar giudìo, pòzz’èsse acciso!,

nun ce mettono er becco antro che loro;

como si tutto quanto sto tesoro

fussi fatto pe un cazzo circonciso.

Ecco che dice sto giudìo scontento:

Sopra li leggi vecchi, mortivòi,

per vita mia!, sta tutto el fonnamènto.”

Ma lui non sa che Gesucristo poi

per morì fece un antro testamento,

e ‘r paradiso l’ha lassato a noi.

Il culto della forza nel fascismo, ovviamente, fu tutt’altra cosa. Esso nacque dalla teorizzazione della “violenza chirurgica” del socialista – seguace di Georges Sorel – Benito Amilcare Andrea Mussolini. Il risultato, però, fu un identico, arbitrario sistema di vita.

Ciò che rende interessante il Brancati degli inizi è, quindi, proprio il sonetto Atunno, dove, per nulla a favore e per nulla in contrasto con l’ideologia fascista, si intravede un’elegiaca malinconia e si apprezza l’elegante tecnica simbolista – anzi, addirittura impressionista – nel rappresentare la natura, le cose e gli uomini.

Anche nel dramma Piave , ambientato nel 1917, durante la disfatta di Caporetto, Brancati ha un momento di pensosità, tanto da far dire al protagonista, il disertore Giovanni Dini:

“Chi vincerà, in questa guerra, non sarà più felice di chi resterà vinto; l’Italia, specialmente, anche se vittoriosa, cadrà nel più oscuro disordine.”

Ma, subito dopo, Brancati si riprende e fa stringere le fila ai suoi personaggi – compreso il disertore, naturalmente – di fronte al pericolo che corre la Patria. Così, essi – tutti per uno! – dichiarano che il nemico non passerà.

E’ facile dire che lo stile di quest’opera sia tronfio e traboccante retorica, tutto imbevuto di dannunzianesimo – come dannunziane erano le novelle del padre, e tutto affidato nei contenuti alla trovata finale e all’ingegnoso incastro delle situazioni. Così, riferendosi a questo periodo, lo scrittore in Ritorno alla censura lo definirà:

“Un lampo di cretineria o un momento di ubriachezza fanatica”

Per Piave, poi, userà questa lapidaria definizione:

“Una commedia perfettamente sciocca che dal 1936 mi fa arrossire.”

Una grande rilevanza, ai fini della comprensione della futura poetica di Vitaliano Brancati, poi, ebbe il suo romanzo giovanile L’amico del vincitore (oggi introvabile tanto da toccare su Amazon la quotazione da 288 euro in su, ricerca del 2022).

Mi disse un giorno un amico militellese, poi morto ammazzato per questioni di debiti:

“Nuautri, prufissuri, a nostra ‘gnuranza ci tinemmu!”

In L’amico del vincitore, quindi, Brancati coniuga in salsa siciliana il Regime fascista – e non soltanto fascista, ma pure comunista e pure americano –- La vittoria dell’uomo d’azione sul pensatore, in armonia con la mentalità del colonialismo inglese rappresentata dal Robinson Crusoe di Daniel Defoe – fu il trionfo della filosofia positivista inglese. Così, il protagonista, Pietro Dellini, già presenta la caratteristica principale dei personaggi delle opere mature: il velleitarismo.

A proposito di quest’opera Enzo Lauretta – rara avis – è riuscito a scrivere qualcosa di interessante, almeno, riferendoci agli anni militellesi dello scrittore:

Il romanzo contiene pagine che richiamano la fanciullezza di Vitaliano (e annunciano sotto questo aspetto la fanciullezza di un altro personaggio toccato dalla sensualità, quello di “don” Giovanni Percolla), le prime eccitate sensazioni, i primi pudori, il disgusto nello scoprire la brutalità del rapporto sessuale, persino una specie di rancore nei riguardi della madre che, nella narrazione, col suo egoismo spinge il personaggio di Pietro a inseguire sogni proibiti che finiscono col respingerlo in un vicolo cieco e farne un isolato e uno spostato. In tal senso Pietro Dellini è uno dei primi velleitari di Brancati, uno che sembra rivoltarsi per dispetto, che rinnega la cerchia piccolo-borghese da cui proviene, ne disprezza “le facce riposate, grasse, chiare come numeri” e prova ripugnanza per la grettezza del comportamento, delle idee e dei sentimenti di quella classe senza peraltro riuscire a concepire e tanto meno ad attuare un disegno migliore e comunque diverso.”

1Il personaggio più coerente in questo senso lo troviamo nella novella verghiana Papa Sisto della Raccolta Don Candekoro e C.

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